Identità triestina
Una realtà ereditata, non scelta
La categoria dell’identità triestina nasce per raccontare ciò che è successo ad accettare una realtà ereditata.
Per molti è stata un regalo non voluto, forzatamente acquisito.
Io non sono un nostalgico e amo il presente, con qualche prurito, qualche inevitabile attrito che diventa occasione per riflessioni, racconti e ricordi — senza malinconia.
Identificarmi in questa città, a differenza di quelle degli italiani che non hanno conosciuto confini, è il risultato di inciampi, scelte, errori, incontri e sciagure.
Una cultura su un perenne bordo, che continua a essere frontiera.
Oggi i confini non sono più linee su carte militari, ma ombre.
Retaggi culturali tramandati di generazione in generazione.
Costruiti o mantenuti con diffidenze, arroganza, ignoranza.
Una delle chiavi per capirli passa proprio attraverso l’identità triestina.
Trieste in mezzo e da nessuna parte
Trieste si è sempre trovata tirata dalla giacchetta, l’unica che aveva.
Irriconoscibile dopo 500 anni di impero austroungarico.
Tirata spesso nella direzione sbagliata.
Una città in bilico: tra un Occidente che si illude stabile e i Balcani che cercano ancora la loro identità.
Ritorni e frammenti
L’anima germanica si è persa, ma riaffiora.
Non si integra più in una città che era sua, che forse vorrebbe di nuovo sua, ma che non lo è più.
Gesti, abitudini, cucina e un certo modo di pensare — l’essenza dell’identità triestina — stanno scomparendo lentamente.
Ingurgitati dalla fretta, dalla noncuranza, dall’ignoranza.
Forse è solo il dialetto a resistere, ma nemmeno più gli stranieri lo imparano.
Restano tali. Non sentono il bisogno di integrarsi.
Vivono la città nel suo ritmo comodo, senza farsi domande.
Con questo tag raccolgo e ordino: racconti, personaggi, aneddoti e immagini che ti aiutano a leggere Trieste per quello che è ora.
Piccoli tasselli storici, ironici, scanzonati — mai nostalgici.
Sempre con l’anima triestina del viva là e po’ bon.
Racconti di un triestin patoco
Ti riporto la mia Trieste.
Per come l’ho conosciuta e per come la conosco molto bene da triestin patoco.
È una città che si capisce solo col tempo. E, alle volte, mai.
Trieste che cambia
Non c’è amarcord nel ricordo di come eravamo, quando gli autobus dei Balcani occupavano le rive.
Arrivavano all’alba. Scaricavano una popolazione variopinta, caratteristica.
Invasioni di jeans, caffè, coca–cola, bambole giganti, tutto indossato a strati.
Alla partenza: scarpe, cartoni, pacchi.
Un flusso continuo di targhe da Zagabria, Belgrado, Sarajevo, Pola, Zara.
Un innamorato tradito
Prima ancora dei confini arretrati, c’era il disconoscimento di Joyce.
Tornò a Trieste dopo la Prima Guerra Mondiale.
Non la riconobbe più.
Non gli piacque più.
Un innamorato tradito dall’irredentismo.
Chissà se Trieste avrebbe davvero voluto essere italiana.
Forse nemmeno slava.
Diversa.
Diversa in qualcosa che nemmeno lei sa più definire.
Così ci si innamora del progetto fantapolitico del Movimento Trieste Libera.
E su uno dei più bei palazzi del centro storico compare la scritta:
Welcome to the Free Territory of Trieste.
Una città che cambia pelle
La mia città è bella, moderna, pragmatica, dinamica.
Ben diversa da Venezia, antagonista da sempre.
Trieste è stata ricca quanto lei:
Porto imperiale. Crocevia di lingue, chiese, gastronomie.
Poi il 4 novembre 1918, ore 12: una firma.
La fine di tutto questo.
Poi:
– L’Italia
– Il porto da sacrificare in caso d’invasione
– La via della seta
– La città della scienza
– Ancora una volta, un nuovo futuro
Una nuova identità triestina.