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Carbonara: una storia italiana prima del nome.



Carbonara gesti, ingredienti e intuizioni.
La carbonara è una delle ricette italiane più dibattute. Ma prima di diventare un simbolo nazionale, era solo un’idea in evoluzione. Ingredienti che si sfioravano, tecniche che cambiavano, cucine che sperimentavano. Questo è il racconto di un piatto che non nasce per caso. E che non ha un solo padre. La storia della carbonara comincia molto prima del nome.
Come sempre, le storie si intrecciano con altre storie e quella della carbonara non fa eccezione. Se oggi la chiamiamo così, con una ricetta che i più vorrebbero codificata, è perché nel tempo si è ripulita da burro, panna, pancetta affumicata, groviera, prosciutto, uova cotte… Forse è stato anche un peccato.
La storia della carbonara: origini e trasformazioni.
Questo articolo è un itinerario, un’indagine storica, gastronomica e culturale.
Come a scuola la storia passa attraverso nomi e date. Anche la mia necessariamente lo fa ma tu sorvola noncurante queste precisioni. Sono servite a me per fare un po’ d’ordine. A te resta il generoso compito di leggerla.
La carbonara nasce senza sapere che nome darsi. Attraversa le mense papali e dei re. Si fa semplice e complessa, borghese, rustica o più elegante. Ha tanti affluenti e solo recentemente, molto recentemente ha trovato un unico e riconoscibile sbocco nel grande mare della gastronomia. Poi un giorno che svelerò, assume il nome che conosciamo. Solo dopo essere stata romana, americana, borghese, contadina, clericale… Quindi procedo nel tentativo di dare risposte alle solite domande: Carbonara ricetta tradizionale o identitaria? Americana o tutta romana?
La ricerca parte dagli ingredienti.
Ma il percorso della storia della carbonara è stato lungo e sorprendentemente, gli ingredienti della ricetta attuale: uova, formaggio, salume e pepe li ritroviamo separatamente già in cucina molto prima che qualcuno le dia quel nome. Ci tocca partire dal medioevo che dimostrerà il contrario di quello che si pensa: la carbonara non è tradizione o almeno non è la tradizione italiana che vuole si riferisca a secoli e non a poche decine d’anni.
L’abbinamento tra uova e formaggio ha radici medievali.

Quattro personaggi sono indispensabili per costruire la storia della carbonara:
Maestro Martino de’ Rossi da Como (XV secolo)
È il primo grande cuoco della cucina italiana. Uno che razionalizza, semplifica, scrive bene e soprattutto pensa da cuoco moderno.
Lavorò per il Patriarca di Aquileia. Trieste e Friuli non sono poi così fuori dal quadro, e poi per alti prelati a Roma. Si muoveva tra le corti e le cucine papali. Era ambitissimo, perché non si limitava a cucinare: sapeva organizzare, scrivere, pensare. La sua opera maggiore è il Libro de Arte Coquinaria scritto in volgare, non in latino, cosa rara all’epoca. È un libro che segna il passaggio dal Medioevo al Rinascimento in cucina. I piatti diventano più leggeri, ordinati, e le tecniche sono spiegate per davvero, non solo elencate. Prima di lui si parlava di cucinare con “acque odorifere” e “polveri”, con dosi a caso. Martino ti dice quanto, quando, e perché.
Maestro Martino nomina una zuppa fatta con uova, formaggio e l’immancabile zafferano. Solo il colore è quello che sarà predominante nella carbonara.
È il primo a scrivere davvero da cuoco a cuoco.
Considerato il cuoco più importante del Quattrocento italiano, Martino fu celebrato da Bartolomeo Sacchi, detto il Platina (1421–1481), che lo definì “il principe dei cuochi”.
Bartolomeo Sacchi
Fu un umanista, bibliotecario vaticano e autore di testi morali e gastronomici. È celebre per il suo “De honesta voluptate et valetudine”, il primo libro di cucina stampato in Europa tra il 1470 e il 1475, scritto in latino e destinato a un pubblico colto. Il testo ebbe un’enorme diffusione nelle corti europee e contribuì a far conoscere la cucina italiana fuori dai confini, ma a scapito del vero autore: Maestro Martino de’ Rossi da Como. Bartolomeo, fu veramente un gran copione. Infatti gran parte del contenuto del suo libro è tratto dalle ricette di Maestro Martino. Platina lo conobbe personalmente (probabilmente a Roma) e lo ammirava profondamente, ma nel testo si appropria delle ricette senza nominarlo, come spesso capitava all’epoca tra gli intellettuali umanisti.
Fossero questi i riferimenti temporali saremmo nella tradizione ma purtroppo la ricetta della carbonara non c’è.
Lasciamo il Quattrocento, e saltiamo tre secoli…
Vincenzo Corrado (1736–1836)
Napoletano d’adozione, visse per anni a Lecce come cuoco presso nobili famiglie. Raffinato, curioso e colto, fu tra i primi a ragionare sulla dieta mediterranea ante litteram, con una particolare attenzione alla cucina vegetariana. Il suo “Il cuoco galante” (1773) è un esempio di equilibrio tra gusto e misura. Corrado scrisse un trattato interamente dedicato agli odori delle cucine, “Del cibo pitagorico”, convinto che anche il profumo di un piatto potesse nutrire lo spirito.
Vincenzo Corrado, nel 1773 riporta una ricetta con pasta piccola cotta nel latte o nel brodo, poi mantecata con tuorlo.
Ippolito Cavalcanti (1787–1859)
Nobile decaduto e cuoco per passione, pubblicò “La Cucina teorico-pratica” nel 1837. A differenza dei suoi predecessori, scrisse molte ricette in napoletano, segno che parlava al popolo, non solo ai salotti. Nella sua edizione ampliata del 1839 compaiono, per la prima volta, forme primitive della pasta con pomodoro, segno che la cucina “povera” stava risalendo la scala sociale.
Ippolito Cavalcanti nel 1837: maccheroni con formaggio e uova sbattute.
… senza chiamarla carbonara ma con una ricetta nella quale la dinamica di preparazione è identica: pasta, grasso, legatura a caldo.
Francesco Palma (XIX secolo)
Cuoco e autore è poco conosciuto oggi, ma è stato importante nel passaggio verso una cucina nazionale unificata. Nel suo libro “La Cucina Napoletana” del 1881 si trovano ricette che oscillano tra il popolare e il borghese.
Francesco Palma, 1881: maccheroni cacio e uova.
Il titolo è tutto. Ma non si parla ancora di carbonara.
Non stiamo ancora parlando di carbonara ma degli ingredienti, del colore e forse delle consistenze.
Fili che si intrecciano a costruire la storia della carbonara passano anche attraverso Papa Pio XII e i tagliolini alla papalina, nati negli anni ’30 a Roma. Furono creati da un cuoco romano su richiesta del Papa, Eugenio Pacelli. Chi sia il cuoco non c’è possibilità di saperlo, peccato.
Siamo negli anni dei cuochi e non degli chef. Figure artigianali relegati nei sotterranei a preparazioni geniali.
Il Papa chiedeva un piatto più raffinato rispetto alla classica cacio e ova, ma comunque semplice.
“Tagliolini alla papalina”
Gli ingredienti erano: tagliolini all’uovo o fettuccine, prosciutto crudo al posto del guanciale, cipolla soffritta nel burro, parmigiano reggiano o grana (non pecorino), uova sbattute e mantecate a fuoco spento. Pensare che poi questo “mantecare a fuoco spento” per un periodo molto lungo si dimenticherà.
La papalina si può dire quindi una pre-carbonara borghese: con burro e prosciutto al posto del grasso contadino. Il burro e il prosciutto danno rotondità e finezza, ma senza la ruvidità popolare del guanciale e del pecorino. Una ricetta meno rustica, più da signori. Non ho torto dunque a pensarla più borghese e rappresenta la versione clericale e diplomatica della carbonara.
Carbonara della Merlini: “La bella vita romana”.
Molti anni dopo, nella Roma della “Bella vita” fatta di attori, America e vita godereccia, Marisa Merlini (1923–2008), attrice romana, era orgogliosa della sua carbonara: prosciutto San Daniele, tuorli d’uovo, parmigiano. Pepe? Quindi niente di così blasfemo se non c’è il guanciale o la pancetta, un richiamo al clericalismo dei tagliolini alla papalina a Roma non guasta. Se parliamo del Vaticano, non possiamo non citare i Savoia.
Nelle cucine reali di casa Savoia, fino all’Ottocento, si cucinavano piatti che mescolavano uova, formaggio e salumi per condire la pasta: maccheroni cotti nel brodo, mantecati con tuorli e parmigiano, arricchiti con prosciutto o pancetta. Niente di strano. Il gusto per le paste mantecate all’uovo era comune nelle corti nobili italiane e francesi.
Il cuoco dei Savoia…
Come quelli borbonici o dei Gonzaga, conosceva benissimo l’uovo come legante, il burro come fondo, il formaggio come rinforzo. Queste cucine non rappresentavano certamente il desco familiare degli altri ceti sociali. Erano quelle del ceto borghese economicamente più evoluto, dell’aristocrazia e del clero. Non era una ricetta popolare: dimostra solo l’incontro tra pasta, uova e salume, che quindi non è un’idea americana né improvvisata. Una ricetta che culturalmente esisteva nelle cucine nobili, borghesi e popolari. Ancora non si sapeva che quella, in embrione, era la carbonara. Ma bisogna a spettare che faccia il giro del mondo per costruire la storia completa della carbonara e solo allora lo sarebbe stata.
“La formula era quella: “pappardelle burro e formaggio. Se ho del salume lo metto. Aggiungo le ova, faccio legare, mangio”.

Arriviamo a Giovanni Vialardi, nato nel 1804, fu il cuoco di casa Savoia
Entrò giovanissimo al servizio del principe Carlo Alberto e con il tempo divenne capocuoco e pasticcere di corte. Nel 1854 pubblicò il suo trattato di cucina di pasticceria moderna, credenza e relativa confettureria. Un’opera di 1000 ricette, molte delle quali provenienti dalla tradizione piemontese, ligure, sarda e nizzarda. Questo trattato rappresenta una delle prime codificazioni della Cucina Italiana pre-unitaria con un’attenzione particolare alla precisione tecnica e all’uso del sistema metrico decimale.
In questo trattato di cucina, descrive una pasta mantecata con uova sbattute e formaggio, con aggiunta di prosciutto o pancetta. Il guanciale non compare, ma la struttura è quella.
Carbonara come ipotesi.
Quindi, in embrione, la carbonara esiste già. Ma è talmente tanto diversa da cucina a cucina da essere solo un’ipotesi, non una codifica. Da questo piatto così soggettivo, diverso da cuoco a cuoco, arrivare a una codificazione intransigente, nazionale e internazionale… ne passerà di acqua sotto i ponti per completare la storia della carbonara.
Ada Boni e la vera “pre-carbonara”.
Ada Giaquinto, in arte Ada Boni, nata a Roma, sposò Enrico Boni (famiglia di orafi). Gente benestante quasi aristocratica. Nel 1927 pubblica Il piccolo Talismano della felicità, un libro borghese come La scienza in cucina di Artusi. La Boni troverà sempre il modo di sminuire il testo di Artusi dicendo che sono ricette della cucina di chi non sa cucinare. Ma comunque, come Artusi, non cita alcuna carbonara. Solo nel 1949, nelle sue ricette, troviamo paste preparate con guanciale e pecorino, ma senza uova. Oppure con pancetta e uova, ma senza pecorino, niente pepe nero e soprattutto uova non a crudo. Non è ancora carbonara.
Maccheroni alla maniera inglese.
Nel Talismano del 1927, Ada Boni riporta anche dei maccheroni alla maniera inglese. Una pasta cotta al dente, con burro, formaggio, un po’ di latte o panna, talvolta un tuorlo, talvolta carne o pancetta. Preparazione più vicina al maccheroni & cheese anglosassone che a una carbonara. Negli anni Duemila questa ricetta verrà spesso citata (a sproposito) per giustificare l’uso della panna nella carbonara. La ricetta forse più corretta da citare è quella del 1949: spaghetti al guanciale, senza uova. Una gricia vera e propria, laziale, contadina, concreta. Non certo la “maniera inglese”.
La guida del tour italiano nel 1931 cita la: “Pasta a Cascia”.
Per onor di cronaca, la guida del tour italiano nel 1931 cita la pasta a Cascia. Sono degli strascinati di Cascia: pasta fatta in casa, uova, grasso e carne di maiale, e formaggio. Una carbonara? Se anche lo fosse stata, la pasta a Cascia non diventerà mai famosa, anche se buona. Mancherà il passo nell’immaginario collettivo ed un uso quotidiano perché il piatto diventi identitario. Siamo ancora lontani dagli americani e ancora lontani da sapere perché si chiama carbonara e quando abbiamo cominciato a chiamarla così?
Risposte alla prossima puntata.
Numero di agosto del 1954 nella “La Cucina Italiana”.
La prima volta che troviamo in Italia la ricetta della carbonara è il numero di agosto del 1954 nella “La Cucina Italiana”, tappa fondamentale. Titolo: “Spaghetti alla Carbonara”. L’autore sembra poco convinto: lo si intuisce dal fatto che indica che si tratta di una richiesta dei lettori e introduce ingredienti atipici, come la groviera, formaggio più da albergo che da osteria. Anche qui troviamo pancetta e aglio, e l’indicazione di cuocere il composto di uova sul fuoco, con la conseguente certezza di ottenere delle strapazzate o una frittata di pasta.
Dosi per 4 persone:
Ingredienti – 400 g di spaghetti – 150 g di pancetta – 100 g di groviera – uno spicchio d’aglio – due uova – sale – pepe.
Tempo occorrente: circa mezz’ora.
Porre a fuoco abbondante acqua salata. Tritare la pancetta e tagliare il groviera a dadolini. Quando l’acqua alza il bollore, versarvi gli spaghetti, rimescolare e lasciar cuocere per circa 15 minuti (a seconda della grossezza). Scolarli bene.
Nota: nel testo originale si dice che gli spaghetti “sono migliori se serviti piuttosto al dente”. 15 minuti al dente? Ma all’epoca “il dente” era una cottura lunga e soprattutto: si sottolinea l’importanza di scolarli bene, cosa che oggi si fa sempre meno.
Sbattere le uova intere in una scodella come per una frittata. In un largo tegame, soffriggere la pancetta con lo spicchio d’aglio schiacciato (da togliere). Aggiungere gli spaghetti, le uova, il groviera e abbondante pepe. Mescolare bene finché le uova si saranno un po’ rapprese. Servire subito sul piatto da portata.

La carbonara che conosciamo oggi non nasce da un colpo di genio, ma da un lungo cammino.
Ingredienti che si cercano, si mischiano, si perfezionano. Ricette che si assomigliano, ma non si copiano. Stili di vita, culture e gusti che cambiano. E nomi che arrivano solo quando serve. Per ora ci fermiamo qui. Ma il nome “carbonara”, quello vero, con il suo perché e il suo quando, lo sveleremo nella prossima puntata… Forse. Ma la storia della carbonara continua.
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